L’efficacia della sentenza penale di condanna nel giudizio civile alla luce della pronuncia della Corte Suprema di Cassazione n. 8063/2025.

(Cass. civ. sez. lavoro, ordinanza del 26.03.2025 n. 8063 – presidente: Dott.ssa Adriana Doronzo)

In tema di efficacia della sentenza penale di condanna nel giudizio civile è intervenuta la Corte Suprema di Cassazione, sezione lavoro, enunciando il seguente principio di diritto: a fronte del passaggio in giudicato della statuizione con la quale il giudice penale ha condannato l’imputato e il responsabile civile al risarcimento del danno conseguente al reato, ha ritenuto precluso al giudice civile la possibilità di rimettere in discussione il titolo alla base dell’accertamento della responsabilità, essendogli consentito procedere alla sola verifica dell’esistenza del nesso causale e dell’entità del pregiudizio(vedi anche Cass 11324/2003 e, in motivazione, 18352/2014, Cass 31947/2018, Cass. 5660/2018).

La Corte ha proseguito precisando come (con riferimento alla sua precedente decisione n. 5660/2018): “la pronuncia che accogliendo le domande delle parti civili dispone la condanna generica al risarcimento danni, pur se adottata nelle forme del processo penale, implica sempre l’accertamento della responsabilità civile dell’imputato (e del responsabile civile), e costituisce autonomo capo della sentenza penale suscettibile di passaggio in giudicato ove specificamente impugnato dai soggetti legittimati ai sensi degli artt. 574, 575 e 576 cod. proc. pen., con la conseguenza che, una volta divenuto irrevocabile il capo della sentenza penale relativo all’accertamento di responsabilità per il danno, rimane precluso al giudice civile, adito successivamente ai fini della liquidazione del “quantum”, procedere ad una nuova valutazione nell’“an” della responsabilità civile, potendo invece tale giudice accertare, senza alcun ulteriore vincolo, se il fatto (potenzialmente) dannoso attribuito alla responsabilità dell’imputato abbia determinato o meno, in base alla verifica del nesso derivazione causale previsto dall’art. 1223 c.c., le conseguenze pregiudizievoli allegate dai danneggiati”.

Ora, per meglio comprendere il ragionamento posto a fondamento dell’ordinanza emessa dalla Cassazione, appare di fondamentale importanza ripercorrere, brevemente, le fasi di un procedimento che ha visto le sue prime battute oltre due decenni fa.

1. Svolgimento del processo.

Il danneggiato, all’epoca dei fatti dipendente di una società operante nel settore dell’edilizia, conveniva in giudizio l’ex datore di lavoro, chiedendone la condanna al risarcimento del danno conseguente all’infortunio lavorativo subito in data 15 settembre 2004.

Da tale grave evento traumatico, era scaturito, infatti, un procedimento penale (incardinato presso il Tribunale di Treviso), all’esito del quale veniva accertata la responsabilità del legale rappresentante della società per il reato di lesioni colpose.

L’imputato veniva, altresì, condannato, in solido con la propria compagnia assicurativa (quale responsabile civile), al pagamento in favore della vittima, costituitasi parte civile, della somma complessiva di euro 100.000,00, a titolo di provvisionale.

In seguito all’instaurazione del conseguente giudizio civile, il Tribunale di Vicenza, su richiesta del datore di lavoro (parte convenuta) che formulava domanda di manleva, disponeva la citazione in giudizio della compagnia assicurativa (già responsabile civile in sede penale, sebbene mai formalmente costituitasi) e, all’esito del procedimento, in parziale accoglimento dell’originaria domanda, condannava la sola convenuta al pagamento di una somma di denaro suddivisa in danni patrimoniali e non patrimoniali, accogliendo, inoltre, la domanda di regresso formulata da INAIL nei confronti della convenuta e respingendo la domanda di manleva proposta dalla convenuta nei confronti della società assicurativa in quanto riteneva la polizza stipulata non operativa.

Successivamente, la Corte di Appello di Venezia decideva di respingere i ricorsi riuniti presentati dal danneggiato e dalla convenuta (società edile), accoglieva la richiesta di INAIL, rideterminando la misura della somma dovuta a titolo di regresso in favore dell’Istituto, condannava, inoltre, la società edile al pagamento delle spese di lite in favore del gruppo assicurativo e il danneggiato a rifondere quelle del proprio datore di lavoro, compensando nel resto.

La Corte distrettuale, con riguardo al mancato accoglimento della domanda di manleva proposta dalla convenuta, proseguiva ritenendo che, alla luce della giurisprudenza penale, tale statuizione non fosse suscettibile di passare in giudicato stante il radicale difetto della possibilità di relativa impugnazione, che, dunque, non impediva al giudice civile di ritenere la domanda di manleva coperta da tale deliberazione. 

Il Giudice di appello, concludeva, dunque, stabilendo che la polizza assicurativa sottoscritta tra la società di costruzioni e la compagnia assicurativa, stipulata in epoca successiva all’incidente, non consentiva di estenderne la copertura all’infortunio subito dal danneggiato.

Per la cassazione della decisione proponeva ricorso la società di costruzioni e datore di lavoro del danneggiato.

La società ricorrente, con il primo motivo di ricorso deduceva ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., l’omessa e/o contraddittoria applicazione degli artt. 84, 538, 539, 575, 600 e 651 c.p.p. in punto di efficacia di giudicato della sentenza n. 1073/2007 del Tribunale penale di Treviso, evidenziava, inoltre, che, il giudice penale emetteva un regolare decreto di citazione del responsabile civile, ritenendo la polizza assicurativa pienamente efficace e che, l’art. 539 c.p.p. stabilisce la possibilità di agire per il solo quantum dinanzi al giudice civile. 

Con il secondo motivo la ricorrente ulteriormente lamentava: 

  • ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. l’omessa e/o contraddittoria applicazione delle norme di ermeneutica contrattuale sull’avvenuto perfezionamento del contratto di assicurazione nonché sull’interpretazione della polizza assicurativa datata 9 settembre 2004; 
  • la violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116 e 245 c.p.c. in relazione alla mancata assunzione dei mezzi istruttori ammessi e il vizio di motivazione per l’insufficienza e contraddittorietà sul fatto controverso e decisivo rappresentato dalla mancata assunzione di una testimonianza ritenuta decisiva;
  • il malgoverno della prova con riguardo all’epoca di effettivo perfezionamento del contratto di assicurazione.

2. La pronuncia della Suprema Corte di Cassazione.

La Corte, accogliendo il primo motivo di ricorso, statuiva che, il passaggio in giudicato della sentenza penale con la quale l’imputato e il responsabile civile venivano condannati al risarcimento del danno conseguente al reato, precludeva al giudice civile la possibilità di rimettere in discussione il titolo posto alla base dell’accertamento della responsabilità civile, essendogli esclusivamente consentito verificare la sola esistenza del nesso causale e l’ammontare del pregiudizio sofferto, con ciò precludendogli ogni valutazione anche in merito all’operatività della polizza.

Richiamando quanto statuito in precedenti pronunce di legittimità (Cass. n. 5660/2018), il Collegio giudicante stabiliva che la pronuncia di accoglimento delle domanda della parte civile che prevede la condanna al risarcimento dei danni, anche se adottata nel procedimento penale, implica sempre l’accertamento della responsabilità civile dell’imputato (e del responsabile civile), costituendo un capo autonomo della sentenza penale suscettibile di passaggio in giudicato ove non venga nello specifico impugnato dai soggetti a ciò legittimati, con la conseguenza che, una volta divenuto irrevocabile il capo della sentenza penale relativo all’accertamento della responsabilità per il danno subito dal danneggiato, rimane precluso al giudice civile procedere ad una nuova valutazione dell’obbligazione risarcitoria.

Il giudice civile, dunque, poteva solamente accertare, senza ulteriori vincoli, se il fatto dannoso attribuito alla responsabilità dell’imputato aveva determinato o meno, in base alla verifica del nesso di derivazione causale previsto dall’art. 1223 c.c., il pregiudizio allegato dai danneggiati.

Tanto premesso, la Suprema Corte decideva di accogliere il primo motivo di ricorso, ritenendo assorbito il secondo e cassava con rinvio della decisione per il riesame della fattispecie alla luce dei precedenti di legittimità menzionati.

La sezione lavoro della Corte di Cassazione, argomentando, come si ha avuto modo di illustrare, in maniera del tutto ragionevole, decideva di precludere al giudice civile la sindacabilità del titolo posto alla base dell’accertamento della responsabilità civile in sede penale.

Dopo il passaggio in giudicato della decisione assunta dal giudice penale, quello civile potrà, dunque, verificare unicamente la sussistenza del nesso causale e il quantum del pregiudizio.

Sul punto è utile citare quanto disposto dell’articolo 651 c.p.p., che chiaramente afferma come: “la sentenza penale irrevocabile di condanna pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato, quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del condannato e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale”.

Dopo un’attenta e puntuale disamina della disciplina, appare largamente condivisibile concludere sostenendo che, una volta verificata l’irrevocabilità del capo della sentenza penale che accertava la responsabilità per il danno, al giudice civile, successivamente investito della quantificazione del risarcimento, sarà preclusa ogni nuova deliberazione in merito all’an debeatur dell’obbligazione risarcitoria.

Dott. Federico Girardi
Avv. Nicola De Stefani

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