Rinuncia abdicativa al diritto di proprietà immobiliare – profili generali e ultime novità alla luce della Cass. civ., Sez. Unite, Sent., n. 23093/2025

(Cass. civ., Sez. Unite, Sent., (data ud. 27/05/2025) 11/08/2025, n. 23093 – presidente: D’Ascola)

Con la sentenza in commento si sono pronunciate le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sull’ammissibilità della rinuncia abdicativa al diritto di proprietà immobiliare affermando che “La rinuncia alla proprietà immobiliare è atto unilaterale e non recettizio, la cui funzione tipica è soltanto quella di dismettere il diritto, in quanto modalità di esercizio e di attuazione della facoltà di disporre della cosa accordata dall’art. 832 cod. civ., realizzatrice dell’interesse patrimoniale del titolare protetto dalla relazione assoluta di attribuzione, producendosi ex lege l’effetto riflesso dell’acquisto dello Stato a titolo originario, in forza dell’art. 827 cod. civ., quale conseguenza della situazione di fatto della vacanza del bene. Ne discende che la rinuncia alla proprietà immobiliare espressa dal titolare “trova causa”, e quindi anche riscontro della meritevolezza dell’interesse perseguito, in sé stessa, e non nell’adesione di un “altro contraente”.

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Nel caso sottoposto all’esame delle Sezioni Unite era stato stipulato e successivamente trascritto presso la Conservatoria l’atto di rinuncia alla proprietà di alcuni terreni situati in un comune.
Tali fondi erano caratterizzati da limitata utilità economica e ricadevano sotto il Vincolo di Pericolosità elevata P2 del Piano di Assetto Idrogeologico predisposto dalla Regione Abruzzo.
Nel procedimento promosso dal MEF e dall’Agenzia del demanio per dichiarare nullo o inefficace l’atto notarile verso lo Stato, il Tribunale di L’Aquila emetteva un’ordinanza ex art. 363-bis c.p.c.
Le amministrazioni contestavano la possibilità di rinunciare genericamente alla proprietà immobiliare nel nostro ordinamento, adducendo l’illiceità o non meritevolezza dell’atto, la frode alla legge o l’abuso del diritto.
Il Tribunale di Venezia aveva in precedenza parimenti disposto un rinvio pregiudiziale riguardante una questione simile concernente un immobile ubicato nella provincia di Belluno.
La vicenda sottoposta all’attenzione della Suprema Corte interessava degli immobili soggetti a vincoli conformativi della proprietà privata imposti a tutela dell’interesse pubblico relativo alla stabilità e alla salvaguardia dell’assetto idrogeologico del territorio e comportanti la prescrizione di limiti e obblighi alle prerogative dominicali dei proprietari.
Le questioni sollevate dai Tribunali di L’Aquila e di Venezia conducevano la Corte ad esaminare, innanzitutto, la portata del “diritto di disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”, previsto dall’art. 832 c.c., nonché sulla possibilità di individuare un limite, previsto dall’art. 42, comma 2 della Costituzione, alla possibilità di rinunciare alla titolarità di un immobile incidente sul contenuto del menzionato diritto e sull’efficacia dell’atto abdicativo dello stesso.
La questione affrontata, evidentemente, involge anche la concomitante facoltà di godere delle cose, prevista dall’art. 832 c.c. come parte integrante del diritto di proprietà.
Tale prerogativa non è separabile da quella di disporre della cosa, poiché consiste nella possibilità di determinare la destinazione economica del bene e di utilizzarlo in modo oggettivamente rilevante.
Sul punto, come si anticipava, viene in rilevanza anche la funzione sociale della proprietà quale possibile limite alla scelta di destinazione del bene, la valutazione operata dalla Cassazione circa la meritevolezza delle decisioni del proprietario in merito all’uso specifico del bene prende le mosse proprio dal principio espresso nell’art. 42, comma 2, della Costituzione, ove si stabilisce che la legge deve riconoscere e garantire la proprietà privata, definendone modalità di acquisizione, godimento e limiti al fine di assicurarne la funzione sociale.
La Corte sottolinea che tale disposizione impone al legislatore ordinario di disciplinare integralmente la materia della proprietà privata, includendo i modi di acquisto, di godimento e le limitazioni, che rimandano alla conformazione normativa del diritto di proprietà.
La funzione sociale della proprietà quale strumento volto alla realizzazione degli interessi generali, in luogo del solo interesse economico individuale del titolare, si concretizza attraverso le limitazioni legali alle facoltà di disposizione e di godimento che si inseriscono nella disciplina del diritto di proprietà, vincolandone l’esercizio secondo modalità conformi agli interessi collettivi.
Ora, il ragionamento logico seguito dalle Sezioni Unite può riassumersi in questi termini: se la “funzione sociale” può individuarsi, accanto alla somma dei poteri attribuiti al proprietario nel suo interesse, nel dovere di partecipare alla soddisfazione di interessi generalinon può parimenti affermarsi un dovere di essere e di restare proprietario per “motivi di interesse generale” legati alla affermazione della responsabilità per l’uso dannoso del bene.
Secondo la Corte, infatti, dal nostro ordinamento non può trarsi un reale potere-dovere generale del proprietario di un immobile ad esercitare i suoi diritti in funzione del sistema socioeconomico.
L’utilizzo del bene rimane, dunque, un’espressione del diritto di proprietà volta al soddisfacimento di un interesse patrimoniale attribuito al titolare.
Da quanto sopra deriva che nel caso in cui le facoltà di godimento e disposizione vengano annullate e non vi sia alcuna utilità patrimoniale residua per il proprietario, si estingue anche il diritto di proprietà, senza che sia possibile attribuire al titolare un ruolo di gestione nell’interesse collettivo.


Sull’inapplicabilità della disciplina del c.d. “abbandono liberatorio”

La Corte considera estraneo al tema del giudizio il dibattito riguardante le fattispecie di cosiddetto “abbandono liberatorio”, in quanto svolge una funzione ulteriore rispetto all’abdicazione, ovvero la liberazione da un’obbligazione connessa al bene.
Quest’obbligazione dev’essere adempiuta dal titolare del diritto reale che viene dismesso e sorge quando si verifica la condizione prevista dalla legge, dunque, venuto meno lo ius ad rem, che identifica il soggetto obbligato, cessa anche la causa obligandi.
Pur condividendo l’orientamento secondo cui la liberazione dall’obbligo di contribuire alle spese rappresenta un effetto e non la causa delle fattispecie abdicative, ciò che, a parere della Suprema Corte, caratterizza tali fattispecie è la presenza di un interesse giuridicamente rilevante di altri soggetti (comproprietario, concedente, proprietario del fondo dominante), che vantano a loro volta un autonomo diritto reale di utilizzo sullo stesso bene.
L’abbandono liberatorio deve considerarsi una rinuncia diversa da quella alla proprietà esclusiva perché agisce direttamente nella sfera giuridica di un altro soggetto tramite acquisto o accrescimento previsto dalla legge.
Questa forma di abbandono ha principalmente una funzione satisfattiva delle obbligazioni del rinunciante ed estingue, senza trasferirla, una posizione soggettiva complessa.


Sulla natura della rinuncia abdicativa della proprietà immobiliare

La Corte rileva che la rinuncia alla proprietà immobiliare costituisce un atto essenzialmente unilaterale, la cui finalità principale è la dismissione del diritto, senza riguardo per la destinazione successiva del bene né per l’eventuale acquisizione da parte di terzi.
La natura unilaterale e non recettizia dell’atto di rinuncia abdicativa alla proprietà di un immobile deriva dall’interesse individuale perseguito attraverso la dichiarazione del titolare del diritto soggettivo, che mira semplicemente a dismettere tale diritto.
Questa dichiarazione deve essere resa pubblica tramite atto pubblico o scrittura privata e successivamente trascritta affinché sia opponibile a terzi determinati; tuttavia, non occorre che sia indirizzata a una persona specifica, anche qualora vi sia un soggetto interessato alla rinuncia.
L’adempimento della trascrizione ex art. 2643, n. 5, c.c., della rinuncia alla proprietà immobiliare nei confronti dell’autore dell’atto, trattandosi di atto abdicativo unilaterale, non ha efficacia costitutiva né svolge, di fatto, la funzione tipica prevista dall’art. 2644 c.c. di risolvere eventuali conflitti tra più acquirenti dal medesimo dante causa.
L’acquisto conseguente da parte dello Stato, ai sensi dell’art. 827 cod. civ., si realizza a titolo originario laddove sia accertata la vacanza del bene.
Poiché l’acquisizione statale a titolo originario è una conseguenza automatica della rinuncia abdicativa, la pubblicità in favore dello Stato è necessaria solamente per garantire la continuità trascrittiva e tutelare i terzi. Essendo un atto unilaterale che estingue un diritto patrimoniale secondo l’art. 832 C.c., rileva solo l’interesse di chi effettua la rinuncia.
La concezione secondo cui la proprietà sia disponibile e irrinunciabile, poiché strettamente correlata a doveri, obblighi, limiti e funzioni, implica che la proprietà stessa debba garantire anche un interesse altrui o collettivo, potenzialmente diverso o addirittura contrapposto rispetto a quello del titolare.
Questo, come si è detto, non è condivisibile.
L’articolo 2 della Costituzione, infatti, legittima l’attribuzione al proprietario di obblighi e comportamenti in quanto volti a tutelare interessi fondamentali di rilievo collettivo, quali in particolare la salute e l’ambiente, ma non consente di imporre la proprietà privata come valore autonomo.


Gli effetti riflessi della rinuncia abdicativa alla proprietà immobiliare

L’effetto riflesso che determina la rinuncia in esame trova fondamento nell’art. 827 C.c., secondo cui i beni immobili non appartenenti a nessuno spettano al patrimonio dello Stato.
Si tratta di un effetto giuridico che deriva da una specifica situazione di fatto, ovvero la vacanza del bene immobile, configurandosi come una modalità di acquisto originario.
Secondo la Corte, l’art. 827 C.c. non costituisce elemento dirimente per stabilire se la rinuncia abdicativa alla proprietà immobiliare sia ammissibile o meno.
Tale rinuncia ha solamente lo scopo di dismettere il diritto e regola esclusivamente l’interesse patrimoniale del proprietario, senza che assumano rilievo altri interessi pratici del titolare diversi dall’intenzione di rinunciare, e senza richiedere la conoscenza o il consenso di eventuali controinteressati.
Diversamente, si obbligherebbe il rinunciante a mantenere la proprietà.
L’atto di rinuncia alla proprietà immobiliare non è finalizzato a costituire un nuovo rapporto giuridico che attribuisca la titolarità del bene all’amministrazione statale: lo Stato acquisisce la proprietà solo dopo la cessazione della precedente relazione tra il soggetto e il diritto di proprietà.
Pertanto, il titolo costitutivo dell’acquisizione al patrimonio disponibile dello Stato è rappresentato dalla vacanza, e non dalla rinuncia.
Per quanto concerne i beni immobili, è, dunque, il legislatore stesso che, diversamente da quanto previsto dall’art. 923 del Codice Civile in materia di cose mobili abbandonate (dove l’acquisto a titolo originario implica un comportamento apprensivo concretizzato nell’occupazione) stabilisce che la rinuncia al diritto di proprietà e il conseguente effetto abdicativo determinano l’acquisizione legale a titolo originario in favore dello Stato, senza che sia richiesta da parte di quest’ultimo alcuna manifestazione positiva di accettazione o attività d’impossessamento.


La tutela dell’interesse generale non giustifica l’inammissibilità della rinuncia abdicativa

L’acquisizione di beni immobili al patrimonio pubblico, quando non appartengono a nessuno, rappresenta una manifestazione della sovranità statale e riflette valori fondamentali riconosciuti a livello costituzionale, come quelli relativi alla gestione del territorio, al paesaggio, all’ambiente, all’archeologia e alla prevenzione dei rischi geologici, idrogeologici e sismici, oltre alla tutela dell’incolumità delle persone.
Questo insieme di valori prevale su qualsiasi diritto soggettivo di proprietà e non dipende dalla rinuncia dell’interesse particolare del proprietario né dagli obblighi correlati, né è condizionato da valutazioni economiche sull’acquisizione da parte dello Stato.
Peraltro, se si giustifica l’irrinunciabilità della proprietà immobiliare con la tutela dell’interesse generale, non è possibile dimostrare che questo interesse sia effettivamente garantito precludendo la possibilità di dismissione e imponendo la permanenza della titolarità anche in caso di rinuncia.

Avv. Nicola De Stefani

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